Mors tua vita mea
Una storia di comune emigrazione del capitalismo italiano

Come impone lo stile di casa Agnelli è stato evitato volassero gli stracci nell’ultima uscita di Cordero di Montezemolo a Maranello.
Cordialità ed amenità, rimpianti e ringraziamenti, quanto serve a salvare la faccia. La stampa ci ha spiegato che in fondo è stata Wall Street a decidere, quasi la Borsa di New York fosse un’autorità terza, che indipendente e potentissima segnasse gli sviluppi della leadership del gruppo Fiat. Eppure Wall Street fa le sue valutazioni finanziarie su degli andamenti dell’economia reale, e l’andamento reale di Wall Street è che Marchionne con il suo golfino e l’aspetto di chi sta chiuso al lavoro nella bottega dello zio, oggi è più quotato dell’aristocratico, elegante e mondanissimo Montezemolo. I successi della Ferrari centrano fino ad un certo punto, tolto Jean Todt, con tutto il rispetto per Marchionne, potrebbe essere difficile viverne altri. La pista di un circuito, i piloti non è materiale per la struttura di un’azienda e nella storia Ferrari questi aspetti assumono un ruolo principale. Sergio Marchionne ancora alla fine del secolo scorso, quando Montezemolo era famosissimo, nessuno lo conosceva. Gli sono bastati 14 anni per diventare il numero uno in casa Agnelli, indipendentemente dalla famiglia, o proprio in quanto la famiglia, volente o nolente ha dovuto cedere il passo ad un manager che sa il fatto suo.
Pensando agli amministratori delegati di Fiat, il successo di Marchionne ha scalzato dalle graduatorie persino quello di Romiti. Anche Romiti mostrò qualità eccezionali in tempi bui, ma Marchionne è privo dei supporti che Romiti aveva alle sue spalle, in particolare quello di Enrico Cuccia, il principale protagonista del salotto buono del capitalismo italiano. Marchionne di quel salotto non sa praticamente niente e ce lo dice persino con il suo monotono e povero abbigliamento. Nato a Chieti, cresciuto in Canada, laurea in studi filosofici, procuratore in uno studio legale, Marchionni è un outsider assoluto di talento formidabile e successo. Divenuto Ad di Fiat, non ha pensato nemmeno un attimo di poter ripercorrere il tortuoso cammino dei suoi predecessori. La crisi del sistema economico in cui si è imbattuto non gli offriva margine alcuno. A costo di disdire di colpo piani industriali elaborati come impegni strategici solenni e provocare danni occupazionali considerevoli, ad esempio Termini Imerese, ha preso e sbaraccato. Come dicevano i romani, che Marchionne ha studiato: “Mors tua, vita mea”. Nell’Italia della seconda Repubblica, solo il primo governo Prodi mostrò qualcosa della vecchia riverenza, ed era ancora il secolo scorso. Privo di rapporti politici consolidati, Marchionne fu costretto a contare sulle sue sole forze. Rapidissimo si è posto un nuovo obiettivo, in pratica una terra promessa. Chiedendo venia alle sacre scritture, Marchionne assomiglia più a Mosè che a Valletta, lo Stato italiano, invece, assomiglia al Faraone. L’America gli dava i sostegni economici che qui non trovava. La Crhysler le piattaforme che Fiat non aveva mai costruito. I sindacati di Detroit ringraziano ogni giorno per il lavoro che avevano perso e fanno volentieri quei sacrifici che i sindacati italiani manco si sognano. La luce ed il gas te la regalano e le tasse sono la metà delle nostre. Attraversi il lago Michigan e ritrovi il tuo amato Canada. Aria fresca. A conti fatti, davvero qualcuno può pensare che Fiat dovesse restare italiana? Ma neanche la Ferrari. Grasso che cola se ci sono un paio di aziende metalmeccaniche che resistono.

Roma, 11 settembre 2014